Il Comune di Milano sta lavorando alla seconda edizione di «Reinventing cities», il bando internazionale indetto insieme a C40, rete globale di grandi città che operano per sviluppare e implementare politiche e programmi più green, che prevede l’alienazione e costituzione del diritto di superficie di siti da destinare a progetti di rigenerazione ambientale e urbana.
Si è dunque appena chiusa la selezione dei team chiamati a «reinventare» piazzale Loreto, lo scalo di Lambrate, il nodo Bovisa e altre aree del capoluogo lombardo, per la seconda edizione del bando, cui Milano partecipa insieme a Madrid, Roma, Chicago, Dubai, Montreal, Singapore, Cape Town e Reykjavik. Quello della rigenerazione urbana, di cui si parla già da molto tempo nella comunità internazionale dei progettisti, è un tema tanto attuale quanto urgente. La prevenzione riguardo la fragilità dei nostri paesaggi urbani e rurali o il welfare urbano e servizi diffusi, per avere città nelle quali tutti i quartieri, da quelli più centrali a quelli più periferici, posseggono la medesima disponibilità di servizi, sono solo alcuni dei temi sui quali il mondo della progettazione è chiamato a riflettere. Per avere una visione di quali potrebbero essere gli scenari futuri, MFF ha chiesto ad Aldo Cibic e Andrea Boschetti il loro pensiero in merito.
Cosa ha insegnato la pandemia tutt'ora in corso?
Aldo Cibic: Ho vissuto tutto il periodo del lock down a Vicenza con la mia famiglia. Per me Vicenza era diventato soltanto un posto dove passare il weekend, quando sono in Italia. Improvvisamente è cambiato tutto. Prima la mia vita era ansiogena, trascorrevo 15 giorni al mese in Cina, nel resto del tempo facevo il pendolare tra Vicenza e Milano, ossessionato dal vivere vicino a una stazione o a un aeroporto. Inaspettatamente, mi sono reso conto che questo rallentamento di vita mi consentiva, grazie alla tecnologia, di lavorare bene anche senza dovermi spostare. Quando poi tutto si è sbloccato ho ricominciato a dover andare sporadicamente a Milano e mi sono accorto di quante persone, le più diverse, condividessero questo sentimento. Sembra proprio che la vita sia cambiata, che si sia passati da un correre perché bisogna correre a una riflessione su quello che può avere più senso fare. Questo è legato anche al fatto che, nei mesi del lock down, nella città deserta, scoprivo una vita di comunità nel quartiere che prima non vedevo, dagli altri proprietari di cani che incrociavo quando portavo fuori i miei, fino, soprattutto, ai senzatetto che dormono sulle panchine di fronte a casa mia. La pandemia ha reso visibili gli invisibili, di cui prima neanche mi accorgevo. E’ per questo motivo che ho cominciato un nuovo progetto collettivo sull’integrazione sociale nella mia città. Credo fermamente che, se non si riesce a costruire una maggiore coesione sociale, non possiamo pensare a un buon futuro. A Vicenza prima vedevo pochissime persone. Adesso, guardando con occhi diversi, mi rendo conto che potenzialmente tantissima gente sarebbe pronta ad aiutare, ma che non sa da che parte cominciare.
Andrea Boschetti: Questa pandemia ci sta insegnando tante cose. Consumiamo troppa energia, di tutti i tipi, per accompagnare processi che si sono rivelati spesso non necessari, alcune volte addirittura dannosi. Ciò che appare evidente di fronte al dramma di questi ultimi mesi, al di là di constatare l’assenza nel dibattito che conta di architetti ed urbanisti, è che la nostra professione negli ultimi anni è stata troppo pervasa da un eccesso di autoreferenzialità che nulla aveva a che fare con gli obiettivi di comunità che invece ogni azione progettuale, a mio modo di vedere, dovrebbe considerare come imprescindibile. Una professionalità che non è più incisiva, o perlomeno lo è poco, nel dire come gli ambienti urbani dovrebbero essere progettati, rispettati, trasformati. Il nostro mestiere pare aver infatti lasciato ad altri la responsabilità sulle visioni. In questi ultimi trent’anni anni, in un contesto sempre meno orientato agli interessi collettivi, ovvero più “io” meno “noi”, è mutato radicalmente anche il nostro modo di pensare e fare architettura. L’amministrazione della cosa pubblica è la grande assente e con essa anche le discipline urbane si sono perse; discipline urbane che erano peraltro le uniche delegate, per loro stessa natura, a riflettere responsabilmente intorno a visioni di futuri possibili. L’architettura e l’urbanistica si sono così rifugiate in altro per sopravvivere, staccandosi progressivamente da qualsivoglia impegno civico, culturale e sociale che costituisce invece l’essenza stessa del proprio esistere.
Il pensiero generale è dunque quello di ripensare a nuove comunità socialmente più vivibili e sostenibili?
A.B: Credo che da questa immane tragedia possa nascere qualcosa di nuovo per tornare a pensare al domani in maniera positiva: dobbiamo invertire la rotta e costruire visioni future diverse, capaci di parlarci di qualità e sostenibilità vera dell’architettura; di sicurezza (in senso ampio) della città contemporanea e dei propri territori; di necessità di consumare in modo collaborativo quale antidoto alla giungla iper-individualista; di rimettere al centro quel senso di umanità che è l’inerzia fondamentale di ogni visione creativa sull’architettura; di tornare a parlare di progetti fondati sull’interesse pubblico, incentrati su comunità dolci e solidali; di dare all’architettura la responsabilità di contribuire alla riduzione della forbice delle diseguaglianza; di tornare ad investire da nord a sud su opere pubbliche green, sostenibili come riferimenti virtuosi; di mettere in pratica in maniera massiva grandi progetti di rigenerazione urbana.
A.C: Ho lavorato per anni sull’idea di nuove comunità che permettessero di vivere più vicini alla natura e le ho presentate alla Biennale di Venezia nel 2004 e nel 2010, chiamandole «Microrealities» e «Rethinking Happiness». Poi due anni fa, passando per Shanghai, ho rivisto un vecchio amico, Lou Yongji, preside del College di Design & Innovation della Tongji university. Stava lavorando sullo stesso tema ed era rimasto profondamente colpito dalle mostre in Biennale. In quel momento stava sviluppando un progetto di nuove comunità agricole che aveva chiamato Design harvests. Mi propose di venire in Cina ad insegnare alla Tongji university, per sviluppare insieme un nuovo modello insediativo in campagna, che si chiama Design harvests 2.0. Si tratta di un insediamento per 5.000 persone, a un’ora da Shanghai, dove sperimentare idee che possono aiutarci a immaginare un futuro possibile: un nuovo centro di ricerca sull’agricoltura, sull’alimentazione, sull’energia, sul riciclo… Nello stesso tempo, lo sguardo si era allargato anche ad un grosso problema, molto sentito in Cina oggi, quello delle periferie urbane da rigenerare. Il progetto si chiama NICE 2035, un acronimo che sta per: Comunità (quartiere, vicinato) di innovazione, creatività e impresa verso il 2035. Questo progetto, nella prima fase, è stato pensato in un quartiere dove il 70 % delle persone che attualmente ci vivono sono anziani, e dove pian piano innestiamo attività di studenti universitari e professori che vanno a popolare questi posti realizzando co-working, piccoli alberghi, bar, workshop. Io personalmente ho scelto di andare a vivere in questo quartiere popolare, dove per il momento sono l’unico straniero. La Cina per me è incredibilmente affascinante proprio per questo, perché ti dà una grandissima possibilità di sperimentare e mettere in pratica un’idea di futuro.
Partendo da questi presupposti, a quali progetti state lavorando?
A.C: Il nostro è un paese bellissimo e multicentrico, dove città e cittadine di provincia sono un plus, con un costo della vita inferiore alla grande città e una vicinanza immediata alla natura. Quello che manca, e di cui mi interessa occuparmi, è come rendere attrattive le città di provincia innestando communities of purpose, organizzando nuovi modelli in cui far cooperare e interagire giovani designer che vengono da tutto il mondo con le aziende e i laboratori del savoir faire locale. Nello specifico, qualche anno fa con Cristiano Seganfreddo, il designer italo inglese Martino Gamper, Stefano Micelli e Marco Bettiol con CNA Vicenza, si era fatto un workshop con dieci designer italiani e stranieri e dieci aziende del territorio. Il risultato è stata una bellissima mostra e questi produttori si sono trovati proiettati nel design internazionale: il vetraio di Marostica ha esposto a Design Miami/Basel, l’orafo vicentino è finito sulle pagine del Financial times, e così via. Avendo a questo punto deciso di vivere il 90% del mio tempo a Vicenza, mi sto impegnando perché questo tipo di attività non accada una tantum, ma che diventi continuativa, che rappresenti una nuova vetrina della città e che viva tutto l’anno dalla mattina alla sera tardi con giovani che fanno workshop, musica e varie forme di espressione artistica.
A.B: Sto lavorando al progetto del parco del Polcevera e il cerchio rosso (che sto sviluppando insieme a Boeri Studio ed Inside-Outside/Petra Blaisse) sotto il nuovo ponte di Renzo Piano a Genova. E’ il tentativo di mettere al centro il concetto di ricostruzione, a partire da un progetto a grande scala di comunità dolce e gentile. Il progetto Milano future city, che rimette in gioco un tema di mobiltà come espediente per ripensare radicalmente il disegno degli spazi pubblici e collettivi entro i contesti urbani. Me&You, un grande progetto di comunità che stiamo portando avanti a Milano e che mette insieme senior living, giovani e spazi ludico ricreativi green. Stiamo inoltre lavorando ad un concorso ad inviti promosso da Coima per riqualificare un grande complesso urbano in chiave sostenibile, i cui principi applicati sono molto innovativi in chiave di rigenerazione urbana. Abbiamo appena concluso un grande complesso residenziale di lusso a Budapest, lo Szervita square, grazie a cui abbiamo ridisegnato un’intera piazza che attraversa e scava il piano terra del complesso, restituendo alla città un importante spazio pubblico. Ma si può e si deve fare di più.
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